Trekking e ideo grammi Da un vulcano all’altro sull’isola di Hokkaido
Attraversare praterie di bambù, rabbrividire davanti alle orme di un’orso e scalare vulcani degli effluvi sulfurei: ecco l’essenza del Daisetsuzan. Un trekking di cinque giorni percorre questo parco dell’isola di Hokkaido, la più settentrionale dell’arcipelago del Sol Levante.
Quale è l’ideogramma giapponese per «cratere di lava»? Forse ce lo saremmo dovuti chiedere prima di farci sorprendere dalla nebbia nel pieno della salita all’Asahi Dake, il vulcano più alto dell’isola di Hokkaido. Perché malgrado non ci si veda praticamente più in là del proprio naso, l’olezzo di zolfo e le fumarole che sfuggono dalle viscere della Terra con il rumore di un aereo da caccia non lasciano spazio ad alcun dubbio: il vulcano è attivo. Meglio non posare il piede in un posto sbagliato.
Più il sentiero guadagna in quota, più il vento si scatena. Le raffiche ci stendono a terra e strappano le protezioni dei nostri zaini. Tanto da farci pensare a un dietro front. Ciò nonostante, i giapponesi che pure si arrampicano lungo questo sentiero dalle pietre rosso ketchup, arancione metallico, nero, viola e ocra, non sembrano in alcun modo inquieti. Ben chiusi nelle loro tute K-way integrali, affrontano la nebbia umida senza lasciarsi impressionare dalle condizioni burrascose. Un atteggiamento zen che sarà meglio adottare già sin d’ora, poiché questa meteo da fine del mondo è uno dei marchi di fabbrica del Daisetsuzan, il più grande parco naturale del Giappone.
Analfabetismo temporaneo
Quando, alla fine, la spessa purea si dirada, quello che appare è un tappeto di pini, aceri e sorbi selvatici nani che, come fosse una specie di dolcevita vegetale, ricopre i rilievi vulcanici fin quasi alle vette. La rudezza del clima ne è all’origine. La neve che ricopre il parco da fine ottobre a inizio giugno e il freddo che vi impera per il resto del tempo impediscono infatti agli alberi di superare l’altezza di arbusti e creano questo paesaggio caratteristico. In autunno, il manto verde si ricopre di macchie rosse, arancioni e gialle.
Una tavola di legno recante degli ideogrammi appare al margine del sentiero. Un robot a quattro zampe, un giradischi su tre punte, un quadrato sormontato da una «T» e una specie di totem indefinibile… Senza dubbio, questi simboli corrispondono a quelli della carta, e indicano che il rifugio non è lontano. Uau! Riuscire a dare un senso a questi segni, incomprensibili agli occhi di noi europei, è come vedersi dissipare una seconda nebbia. Inoltre, accettare di essere tempora-neamente analfabeti aggiunge al trekking una dimensione ancor più disorientante e fa lavorare l’immaginazione. L’ideogramma che significa «vulcano» è sormontato da un tratto verso l’alto, simile al fumo che sale dal cratere. Quello che indica la «montagna» sembra la raffigurazione minimalista di tre vette affiancate.
E analogamente ai cartelli, anche la natura di Hokkaido sfida i nostri punti di riferimento. Il mattino è possibile costeggiare un altopiano ricoperto di bambù tipicamente asiatici e osservare più in basso una pianura di arbusti degna di una savana africana, per ritrovarsi il pomeriggio in un paesaggio di schiuma e bruma facilmente confondibile con una landa scozzese.
L’orso bruno per vicino
Improvvisamente, a una svolta del sentiero, un’impronta d’orso fresca fresca ci dà una scarica di adrenalina. Ma allora è vero che ci sono gli orsi, in questo parco. Eravamo sul punto di dubitarne. Per evitare incontri a sorpresa, la maggior parte dei giapponesi appende una campanella allo zaino – ma nessuno si preoccupa di dormire con il cibo nella propria tenda. Continuiamo il cammino cantando ad alta voce e battendo le mani.
«A Hokkaido nessuno è più stato ucciso da un orso da 50 anni», ci assicura Motoi Kikuchi al centro informazioni del parco. «Camminando, occorre essere consapevoli della presenza di questi animali, ma non è necessaria alcuna misura speciale.» Gli orsi bruni rappresentano inoltre un buon esempio della particolarità della fauna e della flora del Daisetsuzan. «Dopo l’ultima glaciazione, la crescita del livello dei mari ha completamente isolato Hokkaido dal resto del Giappone», spiega colui che ha lasciato Tokio vent’anni or sono per le grandi distese del parco: «Per contro, l’isola è rimasta connessa al continente eurasiatico attraverso l’isola di Sakhalin. Ecco perché talune specie hanno più cose in comune con i loro cugini europei che non con il resto del Giappone.» L’orso bruno è presente solo a Hokkaido e non nel resto dell’arcipelago. Analogamente, delle quattro varietà di pini che profumano i sentieri, tre sono endemiche dell’isola.
Capanne spartane
Nella zona alpina del parco, pur trovandoci su un’isola del Pacifico anemoni e genziane fanno pensare alle montagne svizzere. Tuttavia, anche se esteriormente le capanne del Daisetsuzan somigliano a quelle delle Alpi elvetiche, il loro interno è decisamente spartano: un ingresso in terra battuta di un metro quadrato funge da vestibolo, dove si depositano le scarpe prima di stendere la propria stuoia su un ripiano sopraelevato. Si prepara la cena scalzi, con il proprio fornello, e la si consuma seduti sul pavimento. Se qualcuno spera di poter ordinare una birra o un’Ovomaltina al custode si sbaglia di grosso: qui, ognuno si porta e cucina le proprie provviste. E ad ogni modo, la maggior parte delle capanne sono incustodite e gratuite. Dal punto di vista della convivialità, per contro, non hanno nulla da invidiare alla Svizzera. E se le barriere linguistiche non ci consentono conversazioni prolungate, si finisce per constatare che, quando si tratta di russare, elvetici e nipponici parlano la stessa lingua.
Attenzione alla nebbia tardiva
Sono solo le 4 e gli escursionisti sono già in fermento. Tutti fanno colazione e si preparano con la stessa rapidità che si vede in una capanna d’alta quota in periodo di Haute Route. Ma nel Daisetsuzan non si vogliono evitare le valanghe, bensì la nebbia. I panorami più limpidi si ammirano tra le 5 e le 10 del mattino, quando l’umidità delle foreste e delle risaie della pianura non ha ancora raggiunto le cime. Ed è meglio capirlo all’inizio che non alla fine del trekking, anche se può sembrare fuori luogo mettersi in cammino così presto, quando l’itinerario oscilla «soltanto» tra i 1500 e i 2300 metri di altitudine.
Come per giungere più velocemente in cima, il sentiero non si perde in tornanti e punta sempre dritto alla meta. Concatena creste e vette per collegare nel modo più diretto possibile i due vulcani attivi del parco. Dopo cinque giorni di questo regime, nell’ultima salita lungo le pendici spoglie del vulcano Tokachi Dake, con i ciottoli neri che ci rotolano sotto i piedi, i nostri polpacci sono sul punto di chiedere la grazia.
In Giappone, però, un simile sforzo non è mai senza ricompensa. La scopriamo mille metri di dislivello più sotto, nelle vesti di un nuovo ideogramma: tre onde verticali che sfuggono da un ovale, cioè l’indicazione di un onsen, una di quelle sorgenti naturali di acqua calda che si incontrano disseminate in tutto l’arcipelago. Ci tuffiamo con grande delizia, felici di avere imparato l’affascinante lingua del trekking nipponico.