Naturaselvaggia certificata Nel retroterra del Lago Maggiore
Il Parco nazionale della Val Grande si situa tra Domodossola e il Lago Maggiore. È stato terra coltivata spopolata, è da decenni lasciato a se stesso ed è stato riconquistato dalla natura. Itinerari avventurosi percorrono questo nuovo spazio selvatico.
Il sentiero non vuol saperne di finire. Anche se è difficile parlare di sentiero: seguiamo dei punti rossi. Attraverso un terreno che si fa sempre più esposto.
Tutto è iniziato in maniera innocua, con un’ampia mulattiera attraverso un profumato castagneto. Le castagne mature sembravano chiedere di essere raccolte, e ora lo zaino è un po’ più pesante. Se solo non ci fossimo trastullati in quel modo! Gli ultimi raggi del sole ammiccano mentre raggiungiamo le Strette del Casè. Denti rocciosi che fanno presagire un faticoso su e giù. A una pausa è meglio non pensare, tra poco farà buio. Quando la cresta alla fine si appiana, le lampade frontali sono già accese.
Nel mezzo, un’ombra. Il bivacco appare meraviglioso, come sospeso solitario sulla Bocchetta di Campo. L’edificio a due piani, grande quanto un fazzoletto e quasi senza finestre è visibile già da lontano. La posizione è spettacolare. Là sotto brillano le luci dei villaggi di pescatori e dei passeggi rivieraschi del Lago Maggiore; alle nostre spalle torreggiano le più alte montagne delle Alpi. Da quassù, i partigiani godevano di un’ottima visuale.
Spopolamento violento
Oggi, il bivacco appartiene al Parco nazionale Val Grande che, con 146 chilometri quadrati, occupa la zona compresa tra il Lago Maggiore, la Val d’Ossola, la Valle Vigezzo – la continuazione delle Centovalli – e la Val Cannobina. Scoscese catene montuose escludono le fortemente articolate Val Grane e Val Pogallo dal mondo esterno. Ma nonostante le difficoltà di accesso, fino alla seconda guerra mondiale qui fiorivano lo sfruttamento degli alpeggi e il commercio del legname. Poi, durante la Resistenza all’occupazione nazista e al fascismo, questo terreno impervio apparve come un rifugio perfetto per i partigiani. Ciò nonostante, unità di Cacciatori delle Alpi tedeschi e camice nere inviate da Mussolini riuscirono a identificarne i nascondigli. In terribili battaglie, nel 1944 furono massacrati oltre 500 partigiani e numerose baite vennero rase al suolo. In seguito, solo pochi contadini vi fecero ritorno. Nel 1969 fu abbandonato anche l’alpe di Serena, l’ultimo ad essere in esercizio. Da allora, la regione è lasciata a se stessa, e la natura si è ripresa tutto quanto. I terrazzamenti agricoli un tempo strappati con fatica agli erti versanti sono imboschiti, gli insediamenti sono diroccati e boschi e arbusti ricoprono ormai le frastagliate pendici fino ad alta quota. L’idea di una zona protetta nella Val Grande già circolava negli anni Cinquanta – per rendere omaggio alla bellezza delle montagne, ma anche alle lotte per la liberazione. Nel 1967, il Ministero dichiarò il territorio tra i monti Pedum e Sasso e il Rio Val Grande la prima zona di protezione totale delle Alpi italiane dalla quale, nel 1992, nacque l’odierno Parco nazionale.
Natura selvaggia per nulla gratuita
Le vie principali soggette a manutenzione regolare sono poche e i rifugi esclusivamente improntati all’autoapprovvigionamento. In soldoni, significa portarsi con sé sacco a pelo, materassino, utensili da cucina e ovviamente da mangiare. Chi intende lasciare le vie principali necessita, oltre che della carta, di un buon senso dell’orientamento. La copertura del cellulare è rara. Un’autentica sfida, dunque, ma anche un’esperienza che non si dimenticherà facilmente.
Distrutto durante il rastrellamento del 1944, il Bivacco di Campo è stato ricostruito nel 1999 dall’amministrazione del Parco. L’equipaggiamento è rudimentale, ma include una stufa. Che dapprima rifiuta, e manda fumo e tossisce. Ma infine ecco le fiamme, e possiamo rilassare le nostre stanche membra. Improvvisamente, nella notte buia e ventosa risuonano delle voci. Due figure oscure si stagliano nella cornice della porta. Nel cono di luce ci appaiono due volti esausti. Vediamo i due togliersi con sollievo gli zaini dalle spalle. Sono arrivati dalla direzione opposta lungo la via della cresta, sottostimandone in pieno la lunghezza – come noi, del resto. Ci stringiamo in quattro attorno alla stufa, scambiandoci esperienze e preparando caldarroste.
Baite di montagna come bivacchi
Siccome amiamo i panorami, abbiamo optato per l’autunno e per il Sentiero Bove, che segue la cresta tra la Val Grande e la Val Pogallo. Del fatto stesso che questa via esista vanno ringraziati la sezione Verbano Intra del Club Alpino Italiano e Giacomo Bove. La sezione ne aveva attrezzato i primi tratti tra il 1883 e il 1886.
Parallelamente, raccoglieva anche fondi per viaggi di scoperta, come il progetto di spedizione antartica di Giacomo Bove. Un progetto che naufragò tuttavia sin dall’inizio, e Bove morì poco tempo dopo. Quello che rimase fu il denaro raccolto, con il quale la sezione attrezzò una delle prime «vie alte» delle Alpi e, nel 1987, edificò il Bivacco di Campo.
Per il resto, i dieci bivacchi del parco sono allestiti esclusivamente in tradizionali baite alpine. Una ricetta che si è rivelata di successo, in quanto a fine 2013, il parco non solo è stato insignito del marchio «Geopark» dell’UNESCO, ma si è pure visto attribuire la «Carta europea per il turismo sostenibile nelle aree protette».
Levataccia ricompensata
Il mattino successivo ci riserva un tenero crepuscolo, un velo rosa-violetto sui bastioni gelati di Monte Rosa, Alphubel, Dom & Co, come se vi si fosse rovesciato sopra un vaso di colore. In basso, sotto di noi, i laghi paiono specchi. Intendiamo raggiungere il rifugio del Monte Zeda, per cui dobbiamo partire di buon’ora. Grazie agli inattesi ospiti, ora sappiamo cosa ci attende: un ulteriore su e giù, laborioso, ma incredibilmente variato e corredato da un panorama non-stop fino al massiccio del Bernina. I punti più delicati sono assicurati con gradini e catene.
La prima vetta della via, con i suoi 2195 metri, è la Cima della Laurasca. Ore dopo, sul Monte Torrione, ci attendono i punti chiave: placche inclinate e ripidi canaloni che superiamo comunque al meglio grazie alle assicurazioni metalliche e al terreno asciutto. In caso contrario, si tratterebbe di un pericoloso tratto scivoloso. Al Monte Piota si alza un forte vento, e l’arrampicata in cresta diventa un esercizio di equilibrio. Sotto la vetta del Monte Zeda, quasi manchiamo la deviazione per il Bivacco Alpe Forna. Davanti alle due rustiche costruzioni in pietra zampilla una fontana, dalla quale attingiamo a piene mani la chiara acqua di montagna. Quando poi il fuoco scoppietta nel camino, fuori il cielo si tramuta in un manto di stelle e all’orecchio non giunge alcun rumore della civiltà – allora vorresti che il tempo si fermasse.