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Massicci dirupati e acque turchesi Trekking nel Parco nazionale del Tricorno

Le Alpi Giulie sono per molti uno spazio bianco, ma lo scosceso paesaggio montano offre escursioni impressionanti – anche perché è sempre ancora ammantato dalla sua storia durante la Prima guerra mondiale.

Nonostante i 50 chilometri di distanza, l’Adriatico manda il suo speziato buongiorno. Fuori dalla capanna della vetta del Krn, l’aria sa di sale. L’umidità che sale dal mare si scontra qui con il primo ostacolo continentale: le Alpi Giulie, gli scoscesi monti carsici che sorgono tra la Slovenia e l’Italia.

Molta neve in luglio

Tre giorni prima sono partito assieme a un gruppo di escursionisti dalla località di confine italiana di Tarvisio per un giro di quattro giorni. La nostra prima meta, il colosso roccioso del Mangart (2679 m), già la vedevamo dalla nostra partenza da Villaco, ma fino alla capanna che sorge ai suoi piedi sono occorse altre otto ore di marcia. Il primo giorno si è quindi rivelato decisamente impegnativo. Da Tarvisio, il percorso ci ha condotti attraverso buie foreste di abeti rossi al passo della Portella, dove la piramide rocciosa del Mangart si offre infine in tutta la sua grandezza. Avevamo previsto di scalarlo lungo la via ferrata slovena e di ridiscendere per la strada di montagna italiana.

Tuttavia, a metà luglio la neve era ancora insolitamente molta nella parte superiore, per cui il progetto non appariva indicato. Ci siamo allora consolati con un bel piatto di spaghetti alla bolognese in capanna. Cucina italiana in una capanna slovena. Le guerre la videro più volte distrutta e ricostruita. Oggi appartiene alla sezione Bovec dell’associazione alpinistica slovena.

Lungo la «Via della pace»

Il giorno successivo, l’itinerario seguiva la valle dell’Isonzo, il Soča sloveno, fino a Plezzo, o Bovec. Abbiamo percorso alcuni tratti della «Via della pace», inaugurata nel 2007, che passa accanto al cimitero militare di Bretto (Log pod Mangartom) con le sue migliaia di tombe. Oggi pacifica, la cittadina di Plezzo è il centro turistico della valle dell’Isonzo e una mecca per gli amanti della canoa. Per noi, Bovec è il punto di partenza per il Monte Nero (Krn). La cascata del «boschetto acquatico del Šunik», nella valle del Lepena è uno spettacolo che non ci si stanca di ammirare, ma anche in seguito, alla capanna del lago del Krn, si rimane incantati. Ma la nostra destinazione del giorno è il rifugio Monte Krn (Gomiščkovo zavetišče). A partire da 1800 metri arranchiamo nuovamente attraverso i nevai, percorsi guarda caso da numerosi escursionisti locali. Gli sloveni: un popolo di montanari!

Poi sentiamo il sale sulle labbra: lambiti dal vento dell’Adriatico lasciamo la capanna ancora prima del sorgere del sole. Il cielo terso e stellato promette un’alba incomparabile. Raggiungiamo rapidamente la sommità del Krn (2244 m) e poco dopo siamo ricompensati da un fuoco d’artificio nelle tonalità dell’arancione. Sulla vetta, non ci troviamo soltanto in un punto panoramico del tutto unico, ma anche al centro delle battaglie combattute tra il 1915 e il 1917 (vedi riquadro pagina 72).

La Batognica, una montagna esplosa

La vetta del terzo giorno è il Monte Rosso (2164 m), o Batognica, un imponente massiccio montuoso dalla forma di un gigantesco cranio proprio di rimpetto al Monte Nero. Un affusto corroso sbarra la via alla ripida scala di pietra che porta all’ampia e piatta cupola della Batognica. A ogni passo inciampiamo in mucchi di filo di ferro arrugginito, schegge di granate, lembi di cuoio. Ci si muove con sentimenti contrastanti lungo le vie dei luoghi di una guerra sì ormai ­lontana nel tempo, ma proprio per questo ancora più chiaramente assurda. Le truppe italiane avevano scavato una galleria sotto la Batognica occupata dagli avversari, l’avevano farcita con 4500 tonnellate di esplosivo – sì, non avete letto male – e l’avevano fatta saltare in aria. Oggi, la montagna risulta essere più bassa di circa otto metri.

La storia del Monte Rosso ci occupa durante la discesa a Tolmino, situato 2000 metri più sotto. Quaggiù, nel fondovalle accaldato, il festival dell’heavy metal, che ogni anno attrae migliaia di giovani provenienti da mezza Europa, ci ridà slancio. Dei frequentatori del festival, rigorosamente vestiti di nero, si godono accanto a noi una pausa al ristorante, mentre dal palco, situato poco lontano, direttamente sull’Isonzo, incombe la vibrazione di bassi tonanti. Ma prima di salire sul treno notturno che da Santa Lucia d’Isonzo ci porterà a Jesenice e poi a Zurigo, ci concediamo ancora un bagno d’addio nelle acque turchesi del fiume.

Una micidiale guerra di posizione nelle Alpi

Tra il 1915 e il 1917, nella valle dell’Isonzo (Soča in sloveno) si combatté una micidiale guerra di posizione tra austroungarici e italiani. In questi luoghi l’esercito italiano subì circa la metà delle perdite contate nella Prima guerra mondiale. Solo nelle prime quattro battaglie dell’Isonzo, nel 1915, gli italiani persero circa 175 000 uomini, mentre le perdite austriache ammontavano a 123 000 soldati. Nell’inverno di guerra 1916–17 morirono più soldati a causa delle valanghe che non in seguito ad azioni belliche dirette. A questo contribuirono comunque entrambe le parti, che provocavano le valanghe sulle postazioni nemiche a cannonate. La guerra ebbe termine nel 1918 con la sconfitta dell’Austria-­Ungheria. L’odierna valle della Soča rimase italiana. Solo dopo la Seconda guerra mondiale gran parte della regione fluviale fu assegnata alla Yugoslavia, diventando così territorio della Slovenia.

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