Fuoco sul ghiaccio Itinerario scientifico nel cuore delle cascate di ghiaccio
Se le cascate di ghiaccio affascinano, la loro rottura talvolta improvvisa suscita interrogativi sulla loro stabilità. Per meglio comprendere queste strutture effimere, tre ricercatori di Grenoble si sono chinati su un tipo particolare di cascate, le «freestanding». I primi risultati di questo studio pionieristico offrono ai ghiacciatori alcune interessanti chiavi di lettura.
Una cascata gelata che crolla nell’arco di una notte non può che lasciare di ghiaccio. Le «freestanding», culle di incidenti tanto letali quanto spettacolari, ne sono un ottimo esempio. Accessibili essenzialmente ai ghiacciatori più esperti, queste strutture verticali si caratterizzano come una colonna di ghiaccio ancorata alla sommità e alla base, ma senza alcun contatto con la roccia nella loro parte centrale. Possono rompersi istantaneamente, talvolta integralmente, per l’effetto di determinate sollecitazioni termiche, le cui conseguenze sono ulteriormente amplificate dai colpi di piccozza degli scalatori.
Un progetto pionieristico
Desiderosi di gettare luce su questo fenomeno, alcuni ricercatori del Laboratorio di glaciologia e di geofisica dell’ambiente di Grenoble si sono impegnati in un progetto scientifico originale e decisamente pionieristico per il settore.1 Accompagnati da esperti del ramo e da un glaciologo, hanno indagato queste strutture con l’intento di fornire una risposta scientifica alle domande dei praticanti. Sono così state selezionate tre cascate «freestanding», tutte in alta quota per garantirne la formazione durante tutto l’inverno. Si tratta delle cascate Nuit Blanche e Shiva Lingam nel vallone del ghiacciaio di Argentière e della cascata di Rovenaud nell’ita-liana Valsavarenche.
Nel corso dei quattro anni della prima fase della ricerca (2006-2010), diverse cascate alpine sono state equipaggiate con sensori di pressione e temperatura e apparecchi fotografici automatici, e sono state oggetto di prelievi di campioni durante tutta la stagione invernale.
Formazione progressiva
La formazione di queste cascate è stata studiata a partire dal controllo fotografico permanente installato dal glaciologo Luc Moreau, dai rilevamenti delle temperature di ghiaccio e aria, nonché dal prelievo di campioni. Ne è risultato che queste strutture verticali si formano per aggregazione di numerose stalattiti, i cui diametri variano da pochi ad alcune decine di centimetri. La struttura che ne risulta è percorsa da canali che consentono il deflusso dell’acqua. La struttura globale cresce progressivamente nel corso della stagione con il cumulo delle temperature negative, il «potenziale di freddo».
Questa evoluzione non è tuttavia lineare e, dopo circa un mese per le cascate oggetto dello studio, si raggiunge la saturazione. Quest’ultima si spiega con il fatto che l’accresciuto volume della struttura isola la zona di circolazione dell’acqua dal freddo esterno, in quanto il ghiaccio è un ottimo isolante. E poiché l’acqua liquida non affiora più alla superficie, la cascata non ha più – o quasi più – «materia» di cui nutrirsi. È tuttavia possibile osservare una nuova fase di crescita allorquando delle fratture locali permettono all’acqua di affiorare nuovamente verso la superficie.
Un dissolvimento spesso repentino
Se la formazione di queste cascate è progressiva, la loro dissoluzione può essere improvvisa, in particolare per quanto concerne le strutture verticali studiate. Le sequenze fotografiche hanno permesso di visualizzare la comparsa di fratture orizzontali al livello della zona di ancoraggio superiore tra la roccia e il ghiaccio, fratture che possono essere associate direttamente a una trazione meccanica esercitata sulla struttura. Ma quale ne è la causa? Il peso stesso della colonna di ghiaccio tende a «tirare» sulla struttura nella zona del punto di ancoraggio superiore, ma il valore dello sforzo prodotto è troppo debole per generarle. E lo stesso vale ovviamente per il peso dello scalatore sospeso alla cascata. La causa principale delle sollecitazioni che agiscono sulla cascata al punto di romperla brutalmente va ricercata nelle brusche variazioni di temperatura.
In effetti, similmente alla quasi totalità dei solidi, il ghiaccio si dilata con il riscaldamento e si contrae raffreddandosi. Immaginiamo ora che la colonna di ghiaccio, attaccata alla roccia alla base e alla sommità, non sia libera di variare il proprio volume in funzione dei cambiamenti di temperatura: ne risultano delle forze di trazione sul punto d’ancoraggio superiore. Un rapido calcolo mostra come una caduta di 2 °C della temperatura del ghiaccio possa bastare per raggiungere il limite di rottura (un valore ben noto per il ghiaccio) e quindi, teoricamente, indurre il crollo della cascata.
Osservazioni spettacolari
Questa valutazione va mitigata dal fatto che la temperatura può diminuire progressivamente, e che un calo della temperatura dell’aria non influenzerà istantaneamente l’insieme della struttura di ghiaccio, ma la penetrerà lentamente. Ciò nonostante, un raffreddamento dell’aria pari a 6-8 °C l’ora basta a indurre nella cascata una condizione critica che un colpo di piccozza può fortemente perturbare.
Questo fatto è stato verificato dalle osservazioni. Il primo indizio, e anche il più spettacolare, è la scomparsa della cascata tra due scatti automatici: ogni stagione, infatti la Shiva Lingam è crollata nel corso di una notte durante la quale la temperatura è precipitata di circa 10 °C.
Parallelamente, grazie alle misure continue fornite dai nostri sensori di pressione, siamo stati in grado di collegare le variazioni repentine di temperatura all’aumento altrettanto violento delle tensioni nel ghiaccio. Queste misure hanno anche mostrato che delle variazioni più «lente» della temperatura non darebbero luogo a sovratensioni nella cascata.
Chiavi di lettura per i ghiacciatori
Cosa può dunque dedurre il ghiacciatore che intende scegliere la cascata sulla quale cimentarsi? Innanzitutto che dovrà diffidare del comportamento delle strutture verticali in presenza di condizioni di temperatura fortemente variabili. Sembra che gli sforzi si rilascino più rapidamente nel caso dei «sigari», le colonne di ghiaccio fissate alla roccia su tutta la loro altezza, mentre le cosiddette «stalattiti», che non toccano il terreno sottostante, risultano meno sensibili in quanto libere di variare il loro volume in funzione della temperatura.
Lo studio non permette di dire se le variazioni violente attorno agli 0 °C siano più critiche di quelle che si verificherebbero in condizioni più fredde: in teoria non vi dovrebbero essere differenze per quanto concerne le tensioni generate.
Infine, non va dimenticato che il ghiaccio «freddo» è per sua natura più fragile del ghiaccio «caldo» (cioè vicino a 0 °C) poiché le fessure vi si propagano con maggiore facilità.
La seconda fase è in corso
Queste poche chiavi di lettura possono soltanto completare (o confermare) un’esperienza acquisita in anni di pratica. Inoltre, rimangono parziali e sono all’origine di numerose altre domande. La seconda fase del progetto, appena iniziata e che si suddividerà tra questo inverno e il prossimo, mira a completare queste conoscenze considerando da un canto delle cascate situate a quote più basse, quindi maggiormente instabili, e dall’altro andando a confrontarsi con i ghiacci più freddi dell’Alaska in collaborazione con alcuni ricercatori dell’Università di Fairbanks.