Traversata dal Pizzo Mezzogiorno al Madone grosso e al Poncione Cramosino
Al termine di una giornata di ottobre piena di sole e di lavoro, sorpresi per quella solenne e muta immobilità in cui il treno assordante ci aveva lasciati, salivamo lenti verso Chironico e quasi brancicando fra quelle tenebre, così fitte e profonde che quasi ci stupivamo di non sentirle resistere e opporsi al nostro camminare. Non un fruscio tutt' intorno; già lontano e quasi indistinto il mormorio del fiume. La natura sarebbe parsa morta se non l' avesse ravvivata qualche lumicino giallo sparso nella massa nera e densa della montagna: ma quella oscurità vasta e attonita creava un senso di oppressione e di sgomento, come se la linea alta, cupa, enorme che contornava il cielo potesse stringersi e soffocarci. Nel firmamento opaco poche stelle scialbe: però, sulle cime di fronte, un chiarore lunare metallico, freddo, pareva velarle e come portarle più lontano: un chiarore diafano che insensibilmente scendeva e dilagava a poco a poco, disuguale, calmo e come stanco, sui fianchi montani, eppoi giù fino a noi, fino al piano, rivelando al nostro sguardo le cose che erano state sepolte nella notte. Di dietro, la massa nera, non illuminata, pareva ancora minacciosa. Ci trovammo innondati da quella luce strana, fioca e azzurrastra che suscitava un paesaggio fantastico, nel quale le linee proprie delle cose si perdevano come in un crepuscolo: soltanto spiccavano, tra le forme allungate e scure dei boschi, le strisce chiare e lisce dei prati.
Uscimmo dall' ombra impenetrabile del castagneto e, oltrepassato il paese, ritrovammo la strada larga che, con infiniti andirivieni, conduce ai monti bassi di Osadigo, sempre fra una ricca varietà di vedute insolite per noi, tra effetti deliziosi di chiaro-scuro contro lo sfondo cupo della valle, da Faido a Biasca. Lontane e alte, le macchie lattee dei ghiacciai segnavano le vette di un lieve riflesso argenteo; mentre di laggiù, verso Bodio, la fiamma rossa delle officine mandava fino a noi un ronzio sommesso... Ferveva ancora il lavoro, laggiù; ferveva la vita: ancora un alito del progresso ci seguiva ostinato fin quassù... Eppure, cos' era mai quell' esistenza arruffata di tutti i giorni, tra la gente estranea e sospettosa, se non una corsa vana, una fuga verso il vuoto, nella bassa meschinità delle finzioni comuni e delle piccole invidie che rendono più duro e ingrato anche il lavoro? Ah! mille volte più caro il lavoro di quassù, di questi campi, in quest' aria buona, tra questa gente cortese: mille volte meno faticoso in questa terra sana e fragrante, che la civiltà non ancora ha segnato di sue orme. Anche se forse talora pare più duro o più ingrato. Oh! andiamocene più in su, più lontano ancora, lassù, in alto, dove il ricordo della nostra sofferenza quotidiana non ci possa, almeno oggi, seguire: dove più alcuna eco ci raggiunga di quella corsa affannata l' esistenza. Più sù ancora. Ecco, così, qui. Osadigo. Tra le cascine oscure, allineate sù due piani e riposanti al margine della foresta, parevano guardarci sorprese le facciate chiare delle casette linde, coi loro finestrini aperti e profondi come occhi. Nell' erba corta l' umidità dell' aria pareva tutta rappresa, come per riposare prima di riprendere col nuovo sole il volo invisibile e silenzioso. Forse, tutta la vita riposava, in quella penombra quieta come in una stanza; sembrava che in quell' ombra di firmamento anche le piante fossero senza respiro, adagiate pianamento contro la montagna, contro la roccia fida, come in un sommesso colloquio amoroso: certo dormivano... ma nel sonno riprendevano a poco a poco la vita, la bellezza e il profumo che alla terra avevano dato sul giorno, e che a lei avrebbero ridato ancora domani. E così sempre. Perchè la terra riceve e dà, riceve e purifica. Oh! benefica e placida serenità di queste notti! Com' è pur vicina a noi la pace che ricrea, e che noi invece cerchiamo ad ogni costo laggiù, e sempre invano! Regnava nell' aria come un senso di mistica beatitudine, che afferrava e avvolgeva i sensi, affogandoli inerti in un voluttuoso, morbido amplesso di dolce oblio. Nell' animo pene-trava come la vaghezza di un tenue canto armonioso; e un irrefrenabile desiderio di abbracciare tutto il creato, di accarezzare, stringere, possedere per sempre quelle cose e quelle sensazioni sorgeva profondo dalla giocondità dello spirito impigrito, come se nel creato avesse voluto confondere la tenerezza sua, o in esso annullare ogni forma di vita...
Mezzanotte. Ci coricammo nel fieno odoroso, col rimorso di avere spa-ventata la buona ostessa entrando a quell' ora nella cascina, inaspettata-mente aperta: ma dormimmo tanto bene, che il sole al levare ci scopri quando eravamo arrivati appena alle prime cascine dell' alpe Lagasca. Il sentiero battuto qui scendeva, ma, come mi era noto per l' esperienza di altra volta, bisognava salire qualche minuto per ritrovare la strada buona. Questa ci condusse infatti in breve tempo alle due ultime baite dell' alpe, nelle quali si può trovare un giaciglio primitivo, se l' alpe non è « caricato ». Avevamo di fronte, in ombra, il Pizzo Mezzogiorno: così, spruzzato di neve, pareva male-vole e insidioso. A destra, la riposante curva della Bocca di Cognora si perdeva con uno sbalzo repentino nelle muraglie lisce della Cima Bianca. Pas-sammo alto, volgendo i passi a sinistra, sorpassando ben tosto la cresta.
TRAVERSATA DAL MEZZOGIORNO AL MADONE GROSSO.
Ricordavo che, pochi anni prima, mio fratello ed io avevamo voluto passare il colle nel punto più basso: in valle Osadigo non avevamo incontrato difficoltà, ma sul versante verzaschese la roccia scabra e ripida ci aveva fatti sudare non poche camicie, sotto il sole estivo che pareva fondere anche i sassi. Eravamo allora, veramente, anche sprovvisti di corda, mentre il suo appoggio ci sarebbe stato assai comodo e utile. Così stavolta scovammo subito il facile passaggio, tenendoci quasi completamente a sinistra, arrampicandoci sugli infiniti detriti rocciosi seminati per tutto il cammino. Dalla Bocchetta continuammo in direzione di sud-est, sul versante della valle Verzasca, fino ad un canaletto nevoso che in breve tempo ci portò sulla vetta, dopo quattro ore e mezzo di comoda marcia, sempre tra paesaggi di una bellezza aspra e forte, sempre sospinti dal desiderio di trovarne dei nuovi. Al nostro sguardo già da tempo si erano rivelate le cime vicine e quelle più lontane, dal pizzo Redorta al Monte Rosa, all' Adula, al Bernina: e la linea immensa e grandiosa delle vette già bianche pareva adesso assurgere ancora più alta nel cielo. Vicino, le pareti brulle ed i dirupi immani sporgevano insolenti dalle petraie grigie: più in là le graziose curve dei dossi boscosi si perdevano giù nelle vallate cenerognole; e lontano, nello sfondo, un luccichio indistinto pareva infondere luce in quell' orizzonte chiarissimo. Mentre l' amico T. ritraeva qualche immagine fotografica, mi godetti per lunga ora le bellezze di quell' accordo incantevole di luce e di colori, sotto il cielo un po' pallido, mentre nella giornata autunnale il sole sfolgorava ancora così vivido e caldo come di estate.
Poi insaccammo le poche cose sparse, e scendemmo sulla cresta che conduce al Madone grosso, tenendoci sul versante verzaschese. Al di là della distesa detritica che sovrasta ad un levigato pianerottolo, giungemmo alla bocchetta più bassa, e ci trovammo quasi subito davanti ad una tozza piramide, poco rassicurante per le sue pareti ripidissime. Invece essa non ci oppose alcuna vera difficoltà benchè un poco di neve molle rendesse più incerto l' appoggio: e noi la sorpassammo salendola dal versante est, e scendendo sul versante ovest; e ci parve anche che esistesse la possibilità di sorpassarla girando attorno al fianco est. Ritorniammo quindi sul versante leventinese e, sempre salendo, proseguimmo senza grande difficoltà in direzione di quella costa che congiunge il Madone col Cramosino, mantenendoci a poca distanza dalla cresta almeno per buon tratto. Questa traversata richiese una attenzione quasi assidua, ma fu piena di attrattive e non priva di emozione, per il baratro costantemente aperto sotto i piedi, e che sembrando attirarci, pure ci dava a volte una strana sensazione di leggerezza e di sicurezza. In circa due ore dalla partenza dal Mezzogiorno ebbimo così raggiunta la costa, e pochi minuti dopo la vetta del Madone grosso. Lo spettacolo che si gode da questo punto sulle Alpi lontane non è minore in bellezza a quello che presenta il Mezzogiorno: il paesaggio vicino è anzi più largo, a sud, più dolce anche; mentre a nord fa contrasto la china boscosa dei monti di Bodio colla linea dura dei burroni vicini e profondi.
Dopo una breve sosta ci rimettemmo in cammino, verso il Pizzo di Cramosino ( Miligorni ), sulla cresta che per lungo tratto è largo e facile, poi di TRAVERSATA DAL MEZZOGIORNO AL MADONE GROSSO.
colpo presenta una fenditura stretta. Scesi entro un antro coperto da un lastrone inclinato, uscimmo su di un minuscolo piazzale, chiuso davanti da un muro scabro e aperto, a destra e a sinistra sull' abisso. Poichè qualche tentativo di scalata al muro colla corda fallì, dovemmo servirci delle mani e dei piedi soli, e aggrapparci in qualche modo alle brevi sporgenze. È questo passaggio il solo, in tutta la gita, che presenti qualche difficoltà: per altro la parete non è più alta di sei o sette metri ( mentre la Guida [Führer] delle Alpi ticinesi ne indica una quarantina !). Sorpassati quelli, la cresta ritorna man mano docile e larga. Verso le ore sedici arrivammo invetta, e ci rimanemmo mezz' oretta, indifferenti alla minaccia del cielo, fattosi d' un subito nuvoloso e bigio: quindi affrontammo la discesa balzando giù per la cresta che separa la valle Nadro dalla valle Cramosino, svoltando poi su quel versante, indi su questo, per tornare da ultimo ancore sulla cresta. Questa discesa è in certi posti assai ripida, ma non solleva difficoltà degne di menzione, ed è per contro molto attraente. Infine, raggiunta, un po' più su del primo valico tra le due valli, la sassosa conca di destra e scavalcato il franamento che copre la base della muraglia, ci calammo giù di corsa verso l' alpe Nadro, mentre una pioggia fine velava di un grigio monotono tutto il paesaggio e la spensierata libertà di quel giorno finiva collo spegnersi in una leggera onda di tristezza. Dovemmo raggiungere l' alpe Piscim, donde a rapidi passi e per un sentiero poco marcato guadagnammo il torrente, e lo seguimmo a destra prima, a sinistra poi. L' oscu ci sorprese quando, abbandonata la comoda mulattiera che porta a Personico, sperammo di raggiungere in tempo la scala tagliata nella roccia, e che seguendo una fessura della roccia scende diritta dietro la centrale elettrica di Bodio: sotto i castagni, nella oscurità fatta più densa, deviammo dal retto cammino, e malgrado la lampadina stentammo una buona ora a rin-tracciarlo, sull' orlo del precipizio. Dal basso saliva il brusio delle officine e qualche vampata di luce azzurra. Entrammo in paese quando già le ventuna erano passate, un poco stanchi ma totalmente soddisfatti della gita.
Questa traversata, già nota da molti ed effettuata da anni, merita di essere fatta maggiormente conoscere. Essa non porge ostacoli seri ad alpinisti di qualche capacità: e un certo sforzo di attenzione richiesto è largamente ricompensato dal piacere continuo e vario che procura l' ascensione, dalla gioia di quel bagno vivificante di aria, di luce e di libertà assoluta, dalla bellezza di quella natura sincera, a volte selvaggia a volte dolce, che affascina e incide nell' animo una indimenticabile e grata impressione.
Piero Ferrazzini.
La vetta del Mezzogiorno è certamente raggiungibile anche dalla cresta nord-est, quando venga raggiunta dall' alpe Foppa, e forse anche dall' alpe Lagasca.